Quando quel pomeriggio avevo lasciato lo zaino in custodia a un negozio di dolci, non avrei potuto immaginare che da lì a una manciata d’ore avrei maledetto quella decisione. Lo potevo osservare dall’alto di un pullman, mentre un manipolo di poliziotti lo esaminava sotto la luce delle torce a bordo strada.
Ero partito da poco da Mardin, una piccola cittadina a una trentina di km dalla Siria, per un lungo viaggio notturno, quando il bus si fermò al posto di blocco. Un poliziotto salì a bordo e raccolse tutte le carte d’identità e, sorpreso, si fermò davanti al mio passaporto. L’unico. Giù sulla strada i suoi colleghi cercavano qualcosa tra i bagagli e quando ci lasciarono andare tirai un sospiro di sollievo.
Una volta che il mio cuore aveva ripristinato il suo normale battito, riuscii a riprendere sonno nel tentativo di recuperare le energie. Stavo sonnecchiando da un paio d’ore quando uno scossone mi destò all’improvviso. Le luci interne non fecero in tempo ad accendersi che un uomo con la pistola alla cinta salì bruscamente sul bus. Con fare minaccioso puntava una torcia in faccia alle persone e tuonava di esibire i documenti. Il nervosismo che lo avvolgeva lasciò spazio alla perplessità quando ebbe tra le mani il mio passaporto. I suoi occhi passavano rapidamente dalle pagine del documento alle pieghe tese del mio viso quando, di colpo, mi fece una domanda secca. “Italy”, risposi senza sapere cosa volesse. Sembrò bastargli. Mi riconsegnò freddamente il libretto porpora e andò a parlare con l’autista.
Una manciata di minuti dopo erano entrambi davanti a me con una nuova domanda. “Italy” ripetei, ma questa volta la risposta non andò bene. “Mmm Ardhan?”, provai ad indovinare; nemmeno la mia destinazione li soddisfò. “Tourist” allora azzardai… Niente da fare. I suoni turchi che componevano quella domanda continuavano a essere gli stessi, ma a me del tutto incomprensibili. Sempre più scocciato, prese parola l’autista. “Batman, Batman, Batman??”.
Il tempo si fermò. Ero su un bus notturno nel mezzo del Kurdistan, assieme a una ventina di passeggeri che mi guardavano spazientiti e al tempo stesso curiosi, mentre l’autista e un pseudo poliziotto mi rivolgevano una domanda tanto semplice per loro quanto assurda per me. Cosa diavolo c’entrava l’uomo pipistrello in tutta questa faccenda?
Di colpo l’illuminazione. Avevo visto dal finestrino, qualche ora prima, l’insegna di una città che si chiamava come l’eroe dei fumetti. Risposi con l’unica parola che non avevo ancora usato: “Mardin”. Capii dai loro volti che era tutto ciò che volevano sentirsi dire. Il pilota riprese il volante e l’officiale in borghese scese irritato per la perdita di tempo. In fin dei conti, voleva solo sapere il nome della mia città di partenza.
Rincorsi il sonno diverse volte mentre la Turchia scivolava sotto i miei piedi e il Mar Nero si faceva sempre più vicino. Arrivammo a Kars alle 06:00 puntuali, 12 ore dopo la nostra partenza. Ancora un’ora di strada e saremmo arrivati a destinazione, niente poteva fermarci. E niente poteva farci ripartire. Un’ora dopo, infatti, ci trovavamo ancora nel parcheggio della stazione. Alle 07:00 il conducente si alzò di scatto e mi fece cenno di scendere. Indicando una porta malconcia in fondo al piazzale mi buttò lo zaino tra le braccia.
Provai insistentemente a chiedere spiegazioni ma il suo inglese non era mai salito a bordo e il mio turco, va da sé, era rimasto con Batman. Non rimaneva che Google traduttore. L’autista afferrò scocciato il mio telefono e, urlatogli contro qualcosa, mi mostrò ciò che voleva dire: “Abbiamo dato le vostre tariffe stradali, non fate pagare alcuna tariffa”. Non ne sapevo molto di più di prima ma il pensiero che qualcuno avesse le mie tariffe, qualunque cosa volesse dire, e che non dovessi pagarne altre, mi bastava per lasciare quell’uomo e seguire un altro passeggero. Andammo verso la porta malconcia nell’angolo del piazzale mentre mi faceva capire che avremmo dovuto aspettare un nuovo bus.
Quando varcai l’ingresso venni avvolto dal calore che contrastava con il freddo pungente dell’esterno. Al centro della stanza una malconcia stufa a legna verticale aveva due bollitori posizionati sulla sommità. Tre tavoli blu ospitavano sei uomini dai tratti tanto turchi quanto torvi.
Erano tutti assonnati e se ne stavano come piccioni appollaiati davanti a un bicchiere di Chay.
I tanti anni alle spalle donavano al gestore un’aria funerea e stanca mentre il maglione natalizio che portava provava a rallegrarne il volto. Accettai il Chay di buona volontà. Quel posto sporco e in declino mi piaceva molto e sentivo che, da lì in avanti, sarebbe andato tutto liscio.
Ancora non sapevo che il bus successivo non sarebbe stato l’ultimo di quel giorno e che ci sarebbero voluti anche tre passaggi su di vecchi camion e un cambio di frontiera all’ultimo minuto per raggiungere l’Armenia.
Ma intanto il tè era buono, i commensali e i loro silenzi mi facevano compagnia e quel maglione natalizio, indossato ad ottobre, mi metteva buon umore e ottimismo. Pensai che, in fondo, bastava avere pazienza e tutto, prima o poi, sarebbe arrivato. Che fosse un bus o il Natale poco importava.
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