Ci siamo. Domani è il giorno in cui metterò piede nel barrio El Sauce, la Villa o favela che dir si voglia. Ci sono passato in macchina il primo giorno che sono arrivato e ho provato un sacco di cose. Inadeguatezza, incredulità, il sentirsi inerme, ma anche un po’ di fascino, adrenalina e paura.
Queste che riempio con lo scrivere sono le ultime ore in cui tante cose che stanno lì dentro, e tante emozioni che stanno qui fuori, non hanno un nome o un volto. È come stare seduti davanti ad un sipario a pochi secondi dalla sua apertura e godersi il momento chiedendosi cosa ci sia realmente dietro. Una volta scostato il grande tendaggio, quelle sensazioni che si nutrivano dell’attesa non torneranno più e non c’è modo migliore di fermarle nella mente che dandogli una forma.
All’inadeguatezza do la forma di un quadrato giallo quando la fessura in cui si cerca di inserirlo è un cerchio rosso. Il classico gioco dei neonati per farli entrare in sintonia con le sagome. La sua mano ti spinge con tutta la sua forza verso un vuoto il cui profilo è totalmente diverso dal tuo.
All’essere inerme invece do le fattezze della tela del pittore. Rigida e tesa se ne sta immobile su di un treppiedi ad aspettare i colpi che il pennello darà sul suo corpo. Non può immaginare se i movimenti della mano dell’artista saranno lievi o decisi, soavi o gravi, sa solo che arriveranno.
Ma alla paura, a questa sana e prevista paura non so dare alcuna forma. Come quando un calamaio, riposto su di una mensola, si rovescia facendo cadere l’inchiostro su dei fogli intonsi. Vedo la paura dimorare in quella goccia corvina che inesorabile si getta a capofitto sulla carta bianca. Non può sapere cosa accadrà nell’impatto, a che figura darà vita una volta che sarà un tutt’uno col foglio. E quando ciò accadrà, nel momento esatto in cui delineerà la sua forma, la paura cesserà senza indugio di esistere per lasciare spazio alla realtà.
Tra una manciata di ore suonerà la sveglia, e io, in caduta libera, non vedo l’ora di tuffarmi su quel pezzo di carta.
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