Sono straniero in terra altrui.
Le mie abitudini, i miei vestiti, le mie credenze, il colore della mia pelle e chissà quante altre cose che io non noto sono diverse dalle persone che mi circondano.
Mi sforzo al massimo eppure lo so che qualche volta, inconsapevolmente, faccio qualcosa di storto. Un inchino sbagliato in Thailandia, un bacio in pubblico in Marocco, chissà cosa qui in Colombia.
Lo avverto l’attrito che ogni tanto si crea, quell’etichetta di straniero che spesso riemerge e mi ributta qualche metro indietro sul tortuoso sentiero dell’integrazione.
Mi sento straniero quando lo stesso piatto di cibo mi viene fatto pagare un po’ di più rispetto alle altre persone, quando automaticamente si rivolgono a me in inglese anziché in spagnolo, quando vengo osservato con aria sprezzante o quando mi definiscono gringo.
Allo stesso modo però, queste persone si sentono straniere nel Paese dove sono nato. Non possono che sentirsi così quando le giudichiamo esclusivamente per la loro pelle, quando stigmatizziamo la loro cultura e la loro fede, quando generalizziamo, o quando ci nascondiamo dietro ai pregiudizi per evitare di relazionarci ed aiutarle ad integrarsi.
Siamo abituati a vedere e a trattare le persone diversamente quando arrivano nel nostro Paese e ora che io sono nel loro, il diverso sono io. Questo significa che siamo diversi a turno, come in un gioco da tavolo in cui le pedine si scambiano posizioni e ruoli. A volte lo sono io e a volte lo sei te.
Sembra quasi che sia il terreno dove poggiamo i palmi dei nostri piedi a decidere a chi tocchi il ruolo di diverso e a chi quello di “giusto”. E allora mi vien da pensare che la cosa più logica è che siamo tutti uguali, tutti giusti in un mondo diverso.
Siamo tutti stranieri su una terra non nostra. E come dice il filosofo Michael Walzer, se siamo tutti stranieri, in fondo, nessuno di noi lo è realmente.
Grazie a Silvia Pasqual per la foto in copertina. Potete trovare la sua gallery qui oppure aggiungerla su instagram qui.
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