La scorsa settimana mi trovavo in Puglia quando inaspettatamente, nel corso di una cena, mi sono imbattuto in uno di quei volti patagonici attraversati in Argentina. Involontariamente mi ha lasciato addosso un’impronta e questa che segue è la sua forma.

 
 

A poca distanza dai famosi trulli c’è un pescatore la cui barca ha smesso di solcare i mari da decenni. Ha fatto porto nell’entroterra pugliese tra la saggezza degli antichi ulivi e il vibrante silenzio cantato dai grilli in amore. Ha rinunciato alle notti colme di buio e di stelle e al tepore delle infinite albe che lo riaccompagnavano al molo per costruirsi una famiglia. Il pescatore E. ora passa le giornate prendendosi cura delle verdi gemme gonfie d’olio e sembra un uomo felice. Qualcosa però è rimasto incagliato e continua a sfavillare tra i suoi occhi scuri e nemmeno la falsa corazza burbera che indossa riesce a nascondere quel tremolante luccichio. Come un granchio che si dimena in una rete non sua, quel mare urla e spumeggia dentro il suo petto, si manifesta attraverso le sue parole e i suoi gesti.
In alcune notti speciali poi, quelle in cui i bicchieri si svuotano in fretta e dove le orecchie dei commensali sanno ascoltare, quelle acque tracimano impetuose gli argini dei ricordi e spezzano le cime che ancorano E. al presente portandolo ancora una volta al largo nel suo passato, sulla piccola barca illuminata.
La luce argentea illumina gli abissi corteggiando le sardine sonnacchiose, le barche dei colleghi sono di nuovo in posizione, le reti calate pronte a raccogliere il bottino. Il pescatore E. è tornato ad essere mare e io, come i suoi banchi di pesce, non ho resistito al richiamo della lampara e con gli occhi sognanti mi sono fatto avvolgere dalla sua rete.