Siamo da qualche parte in Colombia dove non dovremmo essere. A dire il vero avremmo dovuto raggiungere la nostra destinazione prima del tramonto, ma il sole qui è caduto già un paio d’ore fa. Ora a farla da padrone è la notte buia e la leggera brezza fa scivolare veloci sul cemento tante piccole foglie. Attorno a noi un labirinto di casse piene di mandarini impilate una sopra l’altra e qualche macchinario arrugginito che la flebile luce del cellulare non riesce bene ad illuminare. Alle nostre spalle l’abbaiare lontano dei cani e le voci degli uomini che ci hanno indicato il punto più buio e isolato della struttura si affievoliscono. No, non dovremmo essere qui.

Raggiungere Salento da Medellin non è difficile. Un primo piccolo bus arriva fino a Pereira in 4 ore e da lì un altro in 45 minuti raggiunge questo piccolo paese in mezzo all’Eje cafetero. Ultima coincidenza alle sette di sera.

Lasciato il caos di Medellin, rigide colline dalle diverse tonalità di verde si susseguono velocemente rendendo la strada un sali e scendi impetuoso. Dopo 1 ora e mezza di viaggio un incidente ci tiene incollati allo stesso metro d’asfalto per più di un’ora. Ad approfittarsi del disguido sono una manciata di venditrici di leccornie e alcuni artisti improvvisati che si esibiscono per raccogliere qualche pesitos. Riascoltato per la decima volta lo stesso disco di canzoni tutte uguali ripartiamo assieme alla lunga colonna. All’improvviso capisco perché il muscoloso signore affianco a me, nella stazione di Medellin, si fece un ampio segno della croce.
Non so bene il motivo, forse per via della mascella inferiore troppo pronunciata rispetto a quella superiore, o forse per l’ampio baffo che prova a tenerla nascosta, ma questo piccolo uomo mi aveva dato l’idea di non essere molto presente con la testa e non gli avevo dato troppo peso. Alla fine della giornata avrei capito che forse era l’unico realmente consapevole di tutto quanto.

La doppia linea continua, i cartelli che in successione avvertono della curva pericolosa, che vietano il sorpasso, che suggeriscono di ridurre la velocità, o che segnalano del pericolo incidenti non sembrano intimorire il nostro conducente che non deve aver digerito bene il ritardo. Con gli occhi incollati al parabrezza e il piede pesante sull’acceleratore sembra intenzionato a recuperare il tempo perduto nonostante la fila pressoché infinita di camion e autobus che ci precede.
I sorpassi iniziano in piena curva e finiscono tre tornanti più tardi rimanendo tassativamente nella carreggiata opposta per superare anche 3 camion di fila. Il passeggero seduto al suo fianco ha il compito di segnalare ai sorpassati di rallentare, così che noi possiamo infilarci tra essi nel momento in cui il conducente inaspettatamente decide che è meglio evitare i frontali.
Quando davanti a noi la strada è libera le cose vanno anche peggio. Le brusche frenate all’ultimo secondo prima delle curve non sempre riescono a tenere il mezzo nella giusta corsia andando più volte largo, e rischiando di sfiorare i fragili guard-rail con le ruote che troppo spesso fischiano implorando pietà.

Davvero, mi sono preoccupato in Egitto quando i taxisti andavano di notte a fari spenti, ho bestemmiato sui tuk-tuk nel traffico di Bangkok ma mai ho avuto la netta sensazione di morire come su questo piccolo bus.

Raggiunta un’ampia pianura, dopo una breve sosta in cui una passeggera è stata quasi dimenticata a terra, riusciamo finalmente a chiudere per un po’ gli occhi con la certezza di aver perso l’ultima coincidenza per Salento.
Il forte scossone e i rumori poco rassicuranti del mezzo ci svegliano di colpo. La strada asfaltata improvvisamente si allontana sulla sinistra lasciando il passo ad un terreno polveroso e sconnesso che ci accompagna fino ad una baracca di legno in mezzo al nulla. La sentenza è inequivocabile: gomma bucata. Il tempo che un manipolo di individui uscito dalla catapecchia ci impiegherà ad aggiustarla non c’è dato sapere, ma forse è meglio così.

Ruota bucata verso Salento, Colombia

La ruota bucata sulla strada per Salento, Colombia

Mentre urino nei pressi di una vecchia ruspa dei cani randagi mi scrutano abbaiando. La mia ragazza non se la sente di fare altrettanto e decidiamo di andare più giù, dove l’unica struttura presente ha ancora delle luci accese.
Camminiamo nel nulla fino a quando raggiungiamo la breve scalinata ed è là che li vediamo per la prima volta: migliaia di mandarini all’interno di vecchie casse accatastate una sopra l’altra. Quella che da lontano sembrava un’area di servizio in realtà è solo un deposito ricolmo di mandarini, dove una manciata di uomini riempiono e caricano senza tregua decine di sacchi su di un furgone. La nostra presenza non viene considerata molto.

«Scusate, è possibile usufruire del bagno?»
«Chiedilo a lui» mi risponde molto distrattamente uno di loro, chinando il capo in direzione di un signore seduto qualche fila di casse più avanti.

Le mani sporche quasi si confondono con le venature scure della grossa scrivania dietro la quale un ceffo in canotta bianca impartisce ordini e discute sui prezzi della frutta. Il tono della voce diventa improvvisamente gentile appena i grossi operai davanti a lui si scostano per lasciarci parlare. Una ventina di occhi inquisitori ci scrutano dalla testa ai piedi mentre titubanti avanziamo per ricevere la chiave che il capo estrae da un cassetto.
«Fate pure» ci dice sorridendoci con gli occhi. «È laggiù in fondo» indicando il lato più buio del capannone.
Zigzagando tra l’aspro odore dei frutti e l’oscurità spigolosa avanziamo tra centinaia di casse mentre il silenzio si prende tutta la scena e il timore di esserci cacciati in una brutta situazione continua a farci compagnia.

Una lampadina penzolante ricopre di una luce fioca una piccola porta di legno chiusa con il lucchetto. Mentre attendo che Alessandra finisca, incrocio lo sguardo di un ragazzo seduto nella penombra che mi guarda con un misto di stupore e di superbia.

Qualche minuto più tardi intorno alla scrivania la discussione è ancora animata. Riconsegnata la chiave con i dovuti ringraziamenti, tutti interrompono i propri discorsi pronunciando ripetutamente, tra un sorriso e l’altro, un sincero “con mucho gusto”. Tre parole che nelle settimane successive avrei imparato a ricevere da qualunque colombiano incontrato.
La ruota è aggiustata, ripartiamo convinti che ormai nulla può più andare storto sulla strada per Pereira.

Dopo 10 minuti ci saremo fermati ad una cosa simile ad una mensa all’aperto perché l’autista doveva mangiarsi una doppia teglia di riso. Un paio d’ore più tardi, condite da qualche frana sulla strada e da altre improvvise soste, ci saremo ritrovati a dover scendere al volo dal bus per salire su di un taxi apparso dal nulla in mezzo al niente. Secondo l’uomo dalla mascella sproporzionata, quella era la nostra unica possibilità di raggiungere l’ostello prenotato poco prima, e, titubanti, l’avremo ascoltato.
Aveva ragione, ma d’altronde avrei dovuto capirlo già a Medellin, ben 10 ore prima, alla vista di quel segno di croce.

Foto in copertina di Landschafts Feeling, qui la sua gallery.