All’interno di Cartagena vive un’altra città invisibile. Se ne sta nascosta dietro le facciate delle case coloniali, sotto le vie ciottolate e dietro i sorrisi dei venditori di frutta. Non la si può vedere nemmeno sapendo della sua esistenza. Esce allo scoperto poche volte l’anno, senza preavviso e per pochissimo tempo. Come in un incantesimo magico si rivela per degli stretti squarci di tempo e come nei palazzi importanti ti invita a toglierti le scarpe e a camminarci sopra a piedi nudi.

Una liquida serata a Cartagena.

Il bar KGB non doveva essere molto lontano, lo avevo notato poche ore prima mentre passeggiavo per il centro di Cartagena e mi ero ripromesso di passarci la serata gustandomi qualche birra in mezzo a tute spaziali e a gigantografie di Lenin. Ancora un paio di quadre e sarei dovuto arrivare, quando all’improvviso un boato squarciò il cielo e grosse gocce d’acqua iniziarono a far capolino tra le strette vie coloniali, trasformandosi ben presto in un vero e proprio muro di pioggia che avvolgeva l’intera città. La mancanza di canali sui tetti e l’assenza di tombini faceva in modo che tutto questo oro liquido si riversasse in strada con esiti poco prevedibili. Nonostante questo pensai che una decina di minuti al riparo di un cornicione sarebbero stati sufficienti per far passare il grosso del temporale.

Mezz’ora dopo, non solo ero fermo nello stesso punto, ma la strada stava perdendo velocemente le sue sembianze per trasformarsi in un piccolo corso d’acqua che raggiungeva rapidamente il livello del marciapiede. I pochi scalini che separavano la carreggiata dall’entrata di un negozio con le serrande ormai abbassate, mi permisero di restare ancora un po’ all’asciutto mentre tutti i taxi che si susseguivano davanti ai miei occhi, erano abbondantemente pieni di fradici individui. Con il passare dei minuti, complice la pendenza del terreno e l’aumentare della perturbazione, dall’incrocio vicino iniziarono ad arrivare decine di sacchi della spazzatura che erano stati depositati fuori dagli ingressi delle abitazioni in attesa di essere raccolti l’indomani mattina. Con un’andatura lenta ma inesorabile li vedevo sfilare davanti ai miei occhi e proseguire il loro cammino verso Plaza de los Coches per poi probabilmente tuffarsi in mare.

I cavalli che trainavano le carrozze dei turisti parevano divertirsi a trotterellare in mezzo a quelle che una volta erano vie asciutte e non dei ruscelli. Lo si capiva bene quando passavano “appositamente” sopra i sacchi dell’immondizia rompendoli, così che tutto il loro contenuto galleggiante si riversava in strada.
Mentre la pioggia imperterrita continuava a cadere il livello dell’acqua saliva a tal punto che il passaggio sfrenato dei taxi iniziò a rallentare mano a mano che questa faceva capolino nei tubi di scappamento bloccandone diversi lungo la carreggiata.

Il volo interno che l’indomani mi avrebbe portato in Amazzonia partiva troppo presto per consentirmi un rientro tardivo, e così, dopo più di un’ora d’attesa, complice il cessare quasi improvviso del temporale, decisi di rientrare all’ostello.
Ora, ci sono tre modi per arrivare al quartiere di Getsemaní. Prendere un taxi, saltare su una carrozza per turisti fino alle mura della città vecchia, o camminare in mezzo all’acqua putrida piena di rifiuti.

Tolsi le scarpe e immersi i piedi in quel liquido marrone che non lasciava intravedere molto di ciò che nascondeva sul manto stradale e mi avviai verso Plaza de los Coches mentre allegri ragazzi colombiani si dirigevano nella direzione opposta chiedendomi se volevo andare in discoteca. Lasciata alle spalle l’isola pedonale che separa la piazza dalla via del teatro di Colombo, immergendo nuovamente i piedi nell’acqua fresca, un pannolino, diretto probabilmente verso il porto, mi urtò e si fermò sulla gamba. “Fin che la cute è integra non c’è nessun pericolo” pensai tra me e me.
Mentre alcuni turisti per evitare di bagnarsi si arrampicavano sulle inferriate del Parque del Centenario, finita la via, con uno stacco improvviso, le strade riemersero dalle acque e potei così rivedere il dorso dei miei piedi.
Tutto ormai era finito. Le donne che vendevano il proprio corpo tornavano a girare per la strada, un vecchietto pazzo continuava come se niente fosse a chiedere qualche moneta, i carretti della frutta giravano come al solito. Nel cielo solo una miriade di stelle. La città si tolse i panni di Venezia e si rimise il vestito coloniale di Cartagena. La città nascosta aveva appena finito di mostrarsi al pubblico e velocemente se ne tornava nascosta tra i ricordi delle persone.

Raggiunto l’ostello, entusiasta dell’esperienza e di non aver bagnato le scarpe in vista del volo di domani, scoprii che la pioggia si era infiltrata nel soffitto della stanza inzuppando lo zaino pronto per l’Amazzonia. Mi dissi che era il piccolo prezzo da pagare per aver avuto la fortuna di vedere questa Cartagena latente. Il taglio sotto l’alluce, che mi accorsi di avere dopo aver fatto la doccia, mi fece pensare che forse questa storia sarebbe stata una delle ultime che avrei potuto raccontare.

All’interno di Cartagena vive un’altra città invisibile. Se ne sta nascosta dietro le facciate delle case coloniali, sotto le vie ciottolate e dietro i sorrisi dei venditori di frutta. Non la si può vedere nemmeno sapendo della sua esistenza. Esce allo scoperto poche volte l’anno, senza preavviso e per pochissimo tempo. Come in un incantesimo magico si rivela per degli stretti squarci di tempo e come nei palazzi importanti ti invita a toglierti le scarpe e a camminarci sopra a piedi nudi.